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Approfondimento

Le novità in tema di prova dopo la riforma

Il legislatore nazionale con la recente riforma del processo tributario ad opera della Legge n. 130 del 2022, ha introdotto significative novità in tema di riparto dell’onere probatorio e di testimonianza scritta, modificando l’art. 7 del DLgs. 546 del 1992.

Con riferimento al primo profilo, viene finalmente sancito che è l’Amministrazione Finanziaria a dover provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impositivo, mentre grava sul contribuente la prova in materia di rimborso.

Come è stato autorevolmente osservato, la finalità della norma è quella di cristallizzare all’interno del processo tributario il ruolo dell’Amministrazione Finanziaria quale attore in senso sostanziale confermando l’applicabilità della regola civilistica prevista dall’art. 2697 c.c.

Sulla base di questa norma, sussiste quindi l’onere di provare per la Amministrazione Finanziaria il presupposto del tributo, gli elementi in base ai quali ha operato la quantificazione e se ha impiegato un particolare metodo accertativo, la sussistenza dei presupposti che ne legittimano l’adozione.

La regola dell’Amministrazione quale attore in senso sostanziale ha conosciuto in passato delle deroghe soprattutto a opera della giurisprudenza ed è proprio a tale proposito che si auspica per il futuro che il regime delle presunzioni legali, previsto dalla normativa di diritto tributario sostanziale e notoriamente a favore dell’ente impositore, venga applicato tenendo in considerazione i principi ispiratori della stessa riforma, ovvero quelli di assicurare una maggiore qualità delle sentenze ed inoltre che gli atti impositivi siano sorretti da elementi puntuali e circostanziati della pretesa tributaria.

L’onere della prova, invece, a carico del contribuente nelle liti da rimborso prevede che lo stesso sia tenuto a provare la sussistenza dei presupposti del diritto di credito e a evidenziare tutte quelle circostanze che riducono (es. deduzioni o debiti da cui discende l’abbattimento del reddito imponibile) o elidono il tributo (es. fattispecie esentative).

Ciò detto, con riferimento invece al secondo profilo correlato alla novità della prova testimoniale, giova evidenziare sin da subito che essendo il giudizio tributario caratterizzato da una istruttoria prevalentemente documentale, non può che essere salutata con favore una norma che rafforza il diritto di tutela giurisdizionale del contribuente e che è volta a garantire il c.d. giusto processo.

La novità si innesta nelle attuali dinamiche del processo tributario dove le c.d. prove atipiche (es. le dichiarazioni di terzi) stanno assumendo sempre maggiore rilevanza, anche grazie alla recente evoluzione giurisprudenziale ed è applicabile ad una molteplicità di fattispecie come quelle riguardanti le contestazioni sulla fittizietà di determinate fatture ovvero quelle riguardanti la determinazione sintetica del reddito, ovvero ancora le contestazioni riguardanti la residenza fiscale delle persone fisiche.

 

Il tenore letterale dell’art. 7 comma 5 bis del D.Lgs. 546 del 1992

Dopo aver accennato brevemente alle più significative novità collegate al regime delle prove, pare opportuno esaminare il tenore letterale delle stesse disposizioni e procedere con una descrizione delle casistiche a cui i principi espressi potrebbero in concreto applicarsi.

A tal proposito, si ricorda che la norma dispone che “l’Amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.

Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.”

La prima parte della norma esprime proprio la regola dell’incombenza dell’onere della prova in capo all’Amministrazione Finanziaria e conferma il ruolo della stessa quale attore in senso sostanziale, dovendo provare i fatti costitutivi della pretesa ai sensi dell’art. 2697 c.c..

Come anticipato, tuttavia, per casistiche di grande importanza la prova è stata addossata dalla giurisprudenza al contribuente, come nel caso dei giudizi connessi all’inerenza dei costi e alla relativa deducibilità, fondati sul disconoscimento da parte dell’ente impositore dell’economicità delle operazioni poste in essere dal contribuente.

Da ora in poi questo principio di derivazione giurisprudenziale dovrebbe venir meno, ma ovviamente ciò non muta la procedura che sta alla base della formazione dell’avviso di accertamento. In questo senso, come autorevolmente osservato, il funzionario sarà sempre obbligato a richiedere i documenti giustificativi dei costi sostenuti e il contribuente non potrà limitarsi a sostenere che ora l’onere della prova incombe in capo all’Amministrazione Finanziaria, dovendo egli ancora dimostrare pena la soccombenza in giudizio la significatività dei documenti prodotti.

Ciò detto, la seconda parte della norma evidenzia invece il fatto che il giudice sarà legittimato ad annullare l’atto impositivo non solo in assenza della prova dei fatti costitutivi della pretesa, ma anche quando quella prova sia contraddittoria o insufficiente e non siano state circostanziate e puntualizzate le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva.

Il tenore letterale della disposizione rende chiara l’intenzione del legislatore di approfondire il grado di dettaglio sia degli avvisi di accertamento che delle sentenze, con evidenti conseguenze anche sulla motivazione degli atti impositivi che a questo punto dovrà risultare rafforzata, “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”.

L’ultima parte della norma, infine, precisa che spetta al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, confermando un principio largamente consolidato a livello giurisprudenziale con la sola esclusione delle fattispecie in cui questi rimborsi derivino dal pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati. Detta regola vale sia per i casi di diniego espresso che per i casi di diniego rifiuto.

 

Le casistiche

Come anticipato pare utile ora procedere con un breve excursus dei casi in cui questa regola del riparto dell’onere probatorio può incidere in maniera significativa.

Ritornando alla fattispecie dell’inerenza dei costi e relativa deduzione, pare potersi concludere alla luce dei sopra richiamati principi che:

  • in caso di contestazione, è l’Amministrazione finanziaria a dover provare l’indeducibilità di un costo e la non inerenza all’attività esercitata dal contribuente (non si potrà più affermare che per dedurre un costo è il contribuente a doverne provare l’inerenza);
  • l’Amministrazione finanziaria non è legittimata a fondare l’avviso sul solo fatto che un costo è “antieconomico”.

Ciò del resto in coerenza con l’evoluzione del concetto di inerenza, elaborato sulla base della disciplina di diritto tributario sostanziale che non prevede più un’inerenza di tipo quantitativo ma un’inerenza di tipo qualitativo.

Altra fattispecie, dove la nuova regola potrà incidere sul riparto degli oneri probatori in maniera significativa è quella relativa al transfer pricing ed in particolare ai giudizi riguardanti le transazioni intercompany e le verifiche basate sui metodi c.d. reddituali.

Infatti, diversamente dal passato, l’Amministrazione Finanziaria dovrà ora fornire in giudizio piena prova, “circostanziata e puntuale”, delle “ragioni oggettive” per cui i prezzi intercompany non risultino conformi a quelli praticati in regime di libera concorrenza, risultando insufficiente la mera allegazione in giudizio dell’esistenza di transazioni tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale.

In mancanza, l’applicazione dei metodi reddituali, come il metodo TNMM (Transactional Net Margin Method) risulterà inaffidabile, senza la possibilità di invertire l’onere probatorio sul contribuente mediante il principio di vicinanza alla prova.

Come noto, si era andato sviluppando un orientamento giurisprudenziale secondo cui il contribuente aveva l’onere di dimostrare che i corrispettivi fossero in linea con il principio di libera di concorrenza, essendo teoricamente il soggetto più vicino alla prova.

Ancora nel 2021 con la sentenza n. 19166 la Suprema Corte ha affermato che “la prova dell’Agenzia delle Entrate non riguarda il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni con imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, di cui all’art. 9 del D.P.R. 917 del 1986, mentre incombe sul contribuente, in base alle regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 c.c. ed in materia di deduzione fiscale, l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi “normali” alla stregua dell’art. 9 del D.P.R. 917 del 1986.”

Da ora in avanti, invece, con l’obiettivo, si auspica, di arginare la diffusione nel processo tributario di principi giurisprudenziali deroganti al criterio generale di ripartizione dell’onere della prova, come quello relativo alla vicinanza della prova, l’Amministrazione Finanziaria sarà tenuta ad effettuare, un’analisi di comparabilità, identificando le società comparabili sulla base delle caratteristiche dei beni ceduti e dei servizi prestati, un’analisi funzionale e un approfondimento della disciplina contrattuale e applicando i criteri e le guidelines stabiliti dall’OCSE.

Infine, con riferimento alle ipotesi di frodi carosello e in particolare alla fattispecie di detrazione IVA collegata a operazioni inesistenti, non basteranno più semplici sospetti a far sì che l’onere probatorio si ribalti in danno del contribuente.

Il Fisco, in modo puntuale e non contraddittorio dovrà dimostrare che il contribuente sapeva della frode, magari producendo email, testimonianze di terzi, documenti che dimostrano la retrocessione del denaro oppure il pagamento a soggetti diversi dal reale fornitore. E solo a questo punto, il contribuente dovrà dimostrare che non poteva sapere della frode, avendo adottato una condotta diligente.

 

La prova testimoniale e il nuovo comma 4 dell’art. 7 del D.Lgs. 546 del 1992

L’altra importante novità si rinviene nella disciplina dell’istruttoria del processo tributario, come sopra anticipato.

Anche in questo caso è opportuno partire dal tenore letterale della disposizione, ricordando che la stessa prevede che “Non è ammesso il giuramento. La Corte di Giustizia Tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo delle parti può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’art. 257 – bis del codice di procedura civile. Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale.”

Analizzando la norma, quindi, risulta evidente che sussistono due tipologie di limiti circa l’assunzione della testimonianza scritta, uno di tipo di processuale collegato al requisito della necessità e l’altro di tipo oggettivo collegato al fatto che la prova testimoniale può riguardare circostanze di fatto diverse da quelle attestate da pubblico ufficiale.

Con riferimento al primo dei limiti richiamati, è opportuno evidenziare che ai fini dell’ammissione della prova testimoniale il giudice potrà avvalersene ove essa sia l’unico mezzo idoneo a dirimere l’incertezza sui fatti decisivi per risolvere la lite. Pertanto, la prova testimoniale può dirsi “straordinaria” poiché ammissibile solo in mancanza di altri elementi istruttori.

Con riferimento, invece, al secondo dei limiti evidenziati, può osservarsi che trattasi di una previsione abbastanza ovvia e la ratio della stessa disposizione è quella di precisare che per superare l’efficacia probatoria dei fatti attestati dal pubblico ufficiale occorre la querela di falso.

Il richiamo all’art. 257 bis c.p.c. consente, infine, di individuare le modalità di assunzione della prova. Più in particolare il giudice, una volta ritenuta ammissibile la testimonianza e individuati con ordinanza i relativi capitoli, dispone che la parte istante predisponga il modello di testimonianza sui fatti necessitanti di essere accertati o lo notifichi al testimone.

Il modello deve precisare gli elementi identificativi del processo e dell’ordinanza, nonché il termine entro cui la risposta dovrà essere resa. Il Giudice indica alla parte istante un termine per la notifica del modello al teste unitamente all’ordinanza di ammissione della prova.

Il teste, poi, compila il modello, rispondendo separatamente a ciascuno dei quesiti ammessi dal giudice e indicando, chiarendone la ragione, a quali non potrà rispondere.

Una volta ricevuto il plico contenente il modello di testimonianza, il giudice, esaminate le risposte può disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a sé o davanti al giudice delegato.

Tutto ciò premesso, come evidenziato da autorevoli commentatori, la testimonianza scritta ex art. 257 bis c.p.c. è un mezzo istruttorio che si può utilmente sfruttare in numerose fattispecie come ad esempio per gli accertamenti di tipo sintetico. E’ inoltre importante tuttavia evidenziare che detto mezzo istruttorio vada esperito tempestivamente, non riducendosi all’udienza di trattazione del merito.